Innanzitutto il termine Hacking nasce dal mondo dell’informatica e, nella sua versione “buona”, indica l’arte di scoprire e sfruttare i punti deboli di un sistema, non per danneggiarlo, ma per migliorarne al massimo prestazioni e funzionalità. Significa usare in modo intelligente e creativo le risorse disponibili, combinando diverse competenze per ottenere risultati mirati ed efficaci.

Il termine BioHacking ha origini relativamente recenti. Comparve per la prima volta nel 1988 in un articolo del Washington Post intitolato “Playing God in your Basement”, riferito a esperimenti biotecnologici. Il BioHacking nasce per studiare potenzialità nascoste umane, per superare i limiti fisici e ambientali, oltre a obiettivi specifici e focalizzati. Si tratta essenzialmente di hackerare il corpo umano in modo naturale, efficace e sostenibile, ovvero applicare metodi innovativi per ottimizzare le funzioni dell’organismo al di fuori dei canali medici tradizionali, con l’obiettivo di permettere a chiunque di ottimizzare la propria salute e potenziare determinati aspetti del proprio essere. Le origini del BioHacking possono essere rintracciate anche nel movimento della democratizzazione delle informazioni sulla salute, attraverso tecnologia e scienza. Il BioHacking quindi è particolarmente interessante per coloro che si sentono impotenti nei confronti dei modelli sanitari tradizionali, offrendo un senso di autonomia, capacità e potenzialità personali.

Nel tempo il termine si è evoluto. Il BioHacking non è più un concetto fantascientifico riservato a pochi eletti, ma un approccio innovativo multidisciplinare, una vera e propria rivoluzione della salute basata sull’evidenza scientifica. Medici, esperti, ricercatori e leader di progetti biomedicali descrivono il BioHacking come una nuova risorsa salva vita anche per alcune delle patologie croniche più diffuse, perché permette di individuare precocemente i rischi, invertire processi patologici e potenziare i meccanismi di resilienza dell’organismo.